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Sentenza

Abbandono rifiuti: chi è competente ad adottare le misure ripristinatorie? Il pr...
Abbandono rifiuti: chi è competente ad adottare le misure ripristinatorie? Il provvedimento che ordina la bonifica rientra nella competenza del Dirigente o del Sindaco?
L'art. 192, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 prevede che chiunque viola i divieti di abbandono di rifiuti è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.

La giurisprudenza ha avuto orientamenti oscillanti in merito alla competenza sindacale o dirigenziale dei provvedimenti ripristinatori e la questione appare definitivamente superata con la recente sentenza del Cons. Stato, Sez. V – sentenza 6 settembre 2017 n. 4230.

Il Consiglio di Stato partendo dal presupposto che, prima della entrata in vigore del TUEL e dopo quella del codice ambientale, la competenza all'emanazione delle ordinanze in questione spettasse al sindaco, si pone il problema se nel periodo intercorrente fra l'entrata in vigore delle due fonti normative la competenza fosse trasferita al dirigente.

Al riguardo, e in parziale riforma degli orientamenti precedentemente assunti, rilevano per il giudice talune considerazioni di ordine sistematico:

– il codice ambientale, alla Parte Quarta, riproduce nella sostanza, salvo adattamenti e integrazioni per coordinamento con normative sopraggiunte, il decreto Ronchi, di cui dispone conseguentemente l'abrogazione;

– in particolare, l'art. 192 del codice ambientale riproduce l'art. 14 del decreto Ronchi pressoché testualmente, peraltro introducendovi due aggiornamenti relativi all'obbligo di accertamenti da parte dei soggetti preposti al controllo e di contraddittorio con i soggetti interessati, oltre che il richiamo al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, ma ribadendo la competenza del sindaco a emanare l'ordinanza per la rimozione dei rifiuti (mentre sarebbe stato ragionevole attendersi la indicazione della competenza dirigenziale, ove il legislatore del codice ambientale avesse inteso tener conto di –e conformarsi a– quanto previsto dal TUEL);

– a ciò si può aggiungere che l'art. 264, comma 1, lett. i), del codice ambientale, nel disporre la abrogazione esplicita del decreto Ronchi, reca altresì una norma in materia di provvedimenti attuativi, al dichiarato "fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto", a testimonianza della volontà del legislatore di evitare ogni discontinuità –salvo ove espressamente disposto– nel passaggio dal decreto Ronchi al codice ambientale.

Gli elementi sopra illustrati inducono a ritenere che –pur dando atto dei profili problematici della questione– si debba applicare al caso in questione il principio di specialità: "Per il principio di specialità, che prevale sul principio ordinario di successione cronologica delle norme, le disposizioni posteriori non comportano l'abrogazione delle precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare." (da ultimo, questo Consiglio, Sez. VI, sentenza n. 1199 del 23 marzo 2016).

In definitiva, il Consiglio di Stato ritiene che la volontà del legislatore vada ricostruita nel senso di affermare la competenza del sindaco ad emanare le ordinanze in materia di rimozione di rifiuti, ex art. 14, D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (decreto Ronchi), anche successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL) e fino all'entrata in vigore del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (codice ambientale), che ha ribadito tale competenza.



Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 27/06/2017) 06-09-2017, n. 4230
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1151 del 2008, proposto da:

A. Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato Federico Bucci, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via S. Maria Mediatrice, 1;

contro

Comune di Rivello, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato Marco Galdi, con domicilio eletto presso lo studio Alfonso Ferraioli in Roma, via Ugo De Carolis, 86;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. BASILICATA - POTENZA n. 00621/2007, resa tra le parti, concernente ordine di rimozione rifiuti lungo tratto autostradale

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 giugno 2017 il Cons. Daniele Ravenna e udito per le parti il solo avvocato Mario Arpino su delega dell'avvocato Federico Bucci;
Svolgimento del processo

L'A. s.p.a. impugna la sentenza in epigrafe, che ha respinto il ricorso, presentato dalla medesima società, per l'annullamento dell'ordinanza n. 38 del 23 maggio 2005, emanata dal Responsabile del Servizio-Ufficio polizia municipale del Comune di Rivello (PZ), con cui ha ordinato ad A. e a due imprese di rimuovere i rifiuti abbandonati lungo l'autostrada A3.

A. adduce a sostegno dell'impugnazione i seguenti motivi:

1. Nullità della sentenza di primo grado. La sentenza sarebbe nulla perché farebbe più volte riferimento a una ordinanza n. 71/2005, a diverso organo emittente e diverso tratto di autostrada interessato, estraneo al Comune di Rivello, e non - come indicato nell'originario ricorso di A. - all'ordinanza n. 38 del 23 maggio 2005, riferita al tratto autostradale dal km. 130+200 al km. 131+850.

2. Violazione e/o falsa applicazione degli art. 50, 54 e 107 D.Lgs. n. 267 del 2000, dell'art. 14 D.Lgs. n. 22 del 1997, ora art. 192 D.Lgs. n. 152 del 2006, e della legge costituzionale n. 3/01: incompetenza del Responsabile del settore. Il TAR avrebbe erroneamente riconosciuto la competenza del Dirigente e non del Sindaco.

3. Violazione o falsa applicazione degli artt. 7 e 8 della L. n. 241 del 1990, per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento. Il TAR avrebbe erroneamente considerato l'ordinanza comunale come un atto vincolato, che non avrebbe potuto avere un diverso contenuto, traendone la deduzione parimenti errata della esclusione dell'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento.

4. Violazione o falsa applicazione dell'art. 14, comma 3, D.Lgs. n. 22 del 1997 e/o dell'art. 192 d. lgs. 152/06: difetto di legittimazione passiva dell'A.. Erroneamente il TAR avrebbe attribuito ad A. la titolarità di diritti personali di godimento sull'area in esame, ritenendo quindi che la società potesse essere destinataria dell'ordine di rimozione di rifiuti.

5. Violazione o falsa applicazione dell'art. 14, comma 3, D.Lgs. n. 22 del 1997 e/o dell'art. 192 D.Lgs. n. 152 del 2006 sotto altro profilo. In ogni caso, non sarebbe riscontrabile una condotta dolosa o colposa da parte di A., né sarebbero applicabili alla fattispecie il codice della strada e gli obblighi di manutenzione da questo previsti.

6. Violazione o falsa applicazione dell'art. 3 della L. n. 241 del 1990. Avrebbe errato il TAR ritenendo sufficiente motivazione del provvedimento la mera imputazione a titolo colposo della responsabilità dell'A..

Si è costituito il Comune di Rivello, che in una memoria ha argomentato per la inammissibilità e infondatezza dell'appello adducendo le seguenti motivazioni:

1. Il ricorso sarebbe inammissibile per omessa impugnazione di un atto presupposto (il verbale del Corpo Forestale, che ha individuato puntualmente i fatti, i responsabili e le misure sanzionatorie da adottare), atto che è stato espressamente richiamato dall'ordinanza impugnata, che vi si è conformata.

2. L'appello sarebbe comunque infondato nel merito. Sarebbe accertato che i rifiuti fossero di A.. Inoltre la società, in quanto concessionaria, andrebbe ricompresa fra i titolari di diritti personali di godimento di cui all'art. 14 del Codice della strada e dell'art. 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997. Alla fattispecie dovrebbe applicarsi l'art. 14 del Codice della strada, da considerare norma speciale rispetto alle citate norme ambientali. Sulla committente A. sarebbe comunque gravato l'obbligo di vigilanza sugli appaltatori.

3. Non sussisterebbero i lamentati vizi di incompetenza nell'emanazione dell'ordinanza, alla luce di quanto disposto dall'art. 107, comma 5, TUEL, né di carenza di motivazione, atteso che l'ordinanza fa rinvio per relationem al richiamato verbale del Corpo Forestale, né di omessa comunicazione di avvio del procedimento, essendo in effetti intervenuta una comunicazione. E comunque rettamente il TAR avrebbe riconosciuto il carattere vincolato dell'ordinanza. Infine gli errati riferimenti all'ordinanza contenuti in taluni passi della sentenza, peraltro corretti nelle pagine successive, configurerebbero una svista evidente ictu oculi e non andrebbero a inficiare il ragionamento svolto dal Giudice di primo grado.

Con successiva memoria, depositata il 24 maggio 2017, A. ribadisce le proprie argomentazioni con ampi riferimenti alla giurisprudenza di questo Consiglio.

All'udienza del 27 giugno 2017 la causa è passata in decisione.
Motivi della decisione

Va preliminarmente esaminata l'eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado avanzata dall'Amministrazione resistente, per mancata impugnazione di atto presupposto. Il Collegio, sulla scorta di recente precedente relativo a fattispecie analoga occorsa fra le medesime parti (Sez. V, sentenza n. 57 dell'11 gennaio 2016), ritiene che l'eccezione vada respinta, poiché il verbale del Corpo Forestale dello Sato costituisce null'altro che la denuncia che ha attivato l'esercizio del potere comunale: esso, quale atto meramente istruttorio e di informazione dei fatti accaduti, non ha un carattere autonomamente lesivo della sfera giuridica dell'appellante.

Va per converso rigettato il rilievo circa la nullità della sentenza impugnata avanzato dalla società appellante. L'erroneo riferimento, contenuto in taluni passi della sentenza appellata, ad altra ordinanza (avente contenuto analogo a quella impugnata nel presente giudizio ed oggetto di separato giudizio avanti questo Consiglio evocato dalla medesima società) configura una mera svista materiale, peraltro corretta in passi successivi della sentenza, rilevabile ictu oculi e tale da non inficiare in alcun modo la ricostruzione del procedimento logico seguito dal Giudice di primo grado.

Assume quindi rilevanza centrale e dirimente la questione della competenza a emanare l'ordinanza impugnata, se del Sindaco (come vorrebbe la società appellante, per dedurne l'illegittimità del provvedimento) o del Dirigente comunale (secondo l'Amministrazione resistente). In materia, si sono succedute nel tempo diverse disposizioni ritenute dalla giurisprudenza applicabili alla fattispecie del potere di ordinanza in materia di rimozione dei rifiuti:

- il d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, "Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio" (cd. decreto Ronchi), che all'art. 14, recante il divieto di abbandono di rifiuti e l'obbligo di procedere alla rimozione, prevede (comma 3, secondo periodo) che "Il sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere";

- il d. lgs.18 agosto 2000, n. 267, "Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali" -TUEL, che all'art. 107, comma 5, prevede che a decorrere dalla data di entrata in vigore del testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III (fra cui il sindaco) l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, "si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti";

- il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, "Norme in materia ambientale" (cd. codice ambientale) che all'art. 192, comma 3, secondo periodo, riproduce testualmente la disposizione richiamata del decreto Ronchi e dunque ribadisce la competenza sindacale.

Quanto ai precedenti, da una parte questo Consiglio ha considerato che - con riferimento a un provvedimento del 2003 (dunque dopo l'entrata in vigore del TUEL e prima di quella del codice ambientale) - alla luce della norma generale del TUEL, "trattandosi di un atto di gestione (più precisamente di un provvedimento sanzionatorio), l'adozione dell'ordine di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi rientra nella competenza del dirigente comunale e non del sindaco" (Sez. V, sent. n. 5288 del 15 dicembre 2016).

Peraltro, in una controversia fra le medesime parti del presente giudizio ed avente ad oggetto una ordinanza del 2007 (dunque dopo l'entrata in vigore del codice ambientale) analoga a quella ora in discussione, questo Consiglio ha statuito che: "Per la pacifica giurisprudenza di questa Sezione, l'art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, è una disposizione speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000, ed attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2. La disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (Cons. Stato, V, 29 agosto 2012, n. 4635; id., 12 giugno 2009, n. 3765; id., 10 marzo 2009, n. 1296; id., 25 agosto 2008, n. 4061)."

La emanazione dell'ordinanza de qua (23 maggio 2005) si colloca temporalmente fra l'entrata in vigore del TUEL e quella del codice ambientale.

Posto quindi che pacificamente, prima della entrata in vigore del TUEL e dopo quella del codice ambientale, la competenza all'emanazione delle ordinanze in questione spetta al sindaco, occorre rispondere al quesito se nel periodo intercorrente fra l'entrata in vigore delle due fonti normative la competenza fosse trasferita al dirigente.

Al riguardo, e in parziale riforma degli orientamenti precedentemente assunti, rilevano talune considerazioni di ordine sistematico:

-il codice ambientale, alla Parte Quarta, riproduce nella sostanza, salvo adattamenti e integrazioni per coordinamento con normative sopraggiunte, il decreto Ronchi, di cui dispone conseguentemente l'abrogazione;

- in particolare, l'art. 192 del codice ambientale riproduce l'art. 14 del decreto Ronchi pressoché testualmente, peraltro introducendovi due aggiornamenti relativi all'obbligo di accertamenti da parte dei soggetti preposti al controllo e di contraddittorio con i soggetti interessati, oltre che il richiamo al D.Lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, ma ribadendo la competenza del sindaco a emanare l'ordinanza per la rimozione dei rifiuti (mentre sarebbe stato ragionevole attendersi la indicazione della competenza dirigenziale, ove il legislatore del codice ambientale avesse inteso tener conto di - e conformarsi a - quanto previsto dal TUEL);

- a ciò si può aggiungere che l'art.264, comma 1, lettera i), del codice ambientale, nel disporre la abrogazione esplicita del decreto Ronchi, reca altresì una norma in materia di provvedimenti attuativi, al dichiarato "fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto", a testimonianza della volontà del legislatore di evitare ogni discontinuità - salvo ove espressamente disposto - nel passaggio dal decreto Ronchi al codice ambientale.

Gli elementi sopra illustrati inducono a ritenere che - pur dando atto dei profili problematici della questione - si debba applicare al caso in questione il principio di specialità: "Per il principio di specialità, che prevale sul principio ordinario di successione cronologica delle norme, le disposizioni posteriori non comportano l'abrogazione delle precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare." (da ultimo, questo Consiglio, Sez. VI, sentenza n. 1199 del 23 marzo 2016).

In definitiva, questo Collegio ritiene che la volontà del legislatore vada ricostruita nel senso di affermare la competenza del sindaco ad emanare le ordinanze in materia di rimozione di rifiuti, ex art. 14 D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (decreto Ronchi), anche successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL) e fino all'entrata in vigore del il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (codice ambientale), che ha ribadito tale competenza.

Ne consegue che l'ordinanza impugnata, ancorché emanata dopo l'entrata in vigore del TUEL, avrebbe dovuto essere emanata dal Sindaco e non dal Dirigente.

L'appello va quindi accolto e conseguentemente, in riforma della sentenza appellata, l'Ordinanza n. 38 del 23 maggio 2005, emanata dal Responsabile del Servizio-Ufficio polizia municipale del Comune di Rivello va annullata, per l'assorbente motivo della incompetenza dell'organo che ha adottato il provvedimento.

Stante la assoluta particolarità della vicenda, va disposta la compensazione delle spese fra le parti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e annulla l'Ordinanza n. 38 del 23 maggio 2005, emanata dal Responsabile del Servizio-Ufficio polizia municipale del Comune di Rivello. Dispone la compensazione delle spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 giugno 2017 con l'intervento dei magistrati:

Francesco Caringella, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Valerio Perotti, Consigliere

Stefano Fantini, Consigliere

Daniele Ravenna, Consigliere, Estensore 

Cons. Stato Sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199
 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 225 del 2013, proposto da:

E.L., G.D.R. e M.C., rappresentati e difesi dall'avvocato Massimo Luciani, con domicilio eletto presso il medesimo difensore in Roma, Lungotevere Raffaello Sanzio, 9;

contro

Banca d'Italia, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Flavia Sforza e Raffaele D'Ambrosio, domiciliata in Roma, Via Nazionale, 91;

nei confronti di

A.S., M.R.P., C.F., F.D.L., G.C., P.S.', L.L., L.S.;

O.C.M.I. Spa- in liquidazione coatta amministrativa;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE III n. 3975/2012, resa tra le parti, concernente irrogazione sanzioni amministrative pecuniarie

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Banca d'Italia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 25 febbraio 2016, il consigliere di Stato Giulio Castriota Scanderbeg e uditi per le parti l'avvocato Luciani e l'avvocato Baldassarre per delega degli avvocati D'Ambrosio e Sforza;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1.- Con le sentenza in epigrafe indicata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha respinto il ricorso di primo grado degli odierni appellanti, proposto avverso la deliberazione 1 aprile 2011 del Direttorio della Banca d'Italia (nonché avverso gli atti connessi e presupposti), recante la irrogazione, all'esito della procedura sanzionatoria di cui all'art. 195 del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 ( recante il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), della sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 60.000,00 in confronto di ciascuno degli appellanti, quali componenti il collegio sindacale della società nel periodo compreso tra il 21 dicembre 2007 ed il 19 aprile 2010, in relazione all'omesso controllo su talune irregolarità riscontrate nella gestione dell'attività di intermediazione finanziaria svolta dalla S.O. s.p.a.( poi sottoposta a liquidazione coatta amministrativa).

In particolare, nei confronti degli odierni appellanti, veniva avviata la procedura sanzionatoria amministrativa per le seguenti irregolarità riscontrate nel corso degli accertamenti ispettivi, così numerate nella proposta e nella delibera di irrogazione delle sanzioni:

1). inadeguatezza dei requisiti patrimoniali da parte dei componenti il Consiglio di amministrazione e il Collegio Sindacale (art.6, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 58 del 1998);

2). inesatte segnalazioni all'Organo di Vigilanza da parte dei componenti il Consiglio di amministrazione e il Collegio Sindacale (artt. 8, comma 1 e 214. comma 5 D.Lgs. n. 58 del 1998; );

4). carenze nei controlli da parte dei componenti il Collegio Sindacale (art.6, comma 20 bis., D.Lgs. n. 58 del 1998; ).

La contestazione delle infrazioni avveniva con note del 21 maggio 2010 notificate agli

interessati il 27 maggio 2010.

La contestazione veniva effettuata, per obbligo di legge, anche nei confronti della SIM in l.c.a., per la quale la notifica aveva luogo in data 7 giugno2010 . Essendo questa l'ultima notifica effettuata, da tale data, come si vedrà meglio nella parte in diritto, ha iniziato a decorrere il termine per la conclusione del procedimento.

Con nota del 18 giugno 2010 (ricevuta il successivo giorno 22) gli interessati richiedevano una proroga per la presentazione delle controdeduzioni che veniva concessa, nella misura di 30 giorni a decorrere dalla data di scadenza del termine precedente.

Le controdeduzioni venivano in seguito presentate con nota del 23 luglio 2010 firmata sia

dai sindaci sia dagli amministratori e, con nota del 7 luglio 2010, dalla SIM in l.c.a. a firma del Commissario liquidatore .

La Commissione per l'esame delle irregolarità riscontrate nell'attività di vigilanza della Banca d'Italia, ritenendo sussistenti le violazioni accertate e giudicando le controdeduzioni prodotte dagli interessati non idonee a giustificare i comportamenti oggetto di contestazione, formulava al Direttorio la proposta per l'irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie (cfr. nota n. 279931 del 31 marzo2011).

Con il menzionato provvedimento del 1 aprile 2011 , in accoglimento della proposta formulata dalla Commissione consultiva, il direttorio della Banca d'Italia irrogava le sanzioni sopra indicate.

2.- Gli appellanti tornano a proporre in questo grado i motivi di ricorso già disattesi dal giudice di prime cure, insistendo in particolare nella censura di violazione del termine di conclusione del procedimento irrogativo della contestata sanzione pecuniaria, di difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento conclusivo e, nel merito, rilevando l'insussistenza delle dedotte irregolarità loro ascritte nel corso del procedimento.

Concludono gli appellanti per l'annullamento del provvedimento sanzionatorio, in accoglimento dell'appello e del ricorso di primo grado ed in riforma della impugnata sentenza.

Si è costituita in giudizio la Banca d'Italia per resistere all'appello e chiederne la reiezione.

Le parti hanno presentato memorie illustrative in vista dell'udienza di discussione della causa.

All'udienza pubblica del 25 febbraio 2016 l'appello è stato trattenuto per la decisione.

3.-L'appello è infondato e va respinto.

4.-Prima dell'esame del merito della causa, vanno affrontate due questioni di carattere preliminare: l'una afferente alla giurisdizione, l'altra alla decadenza dalla potestà sanzionatoria da parte di Banca d'Italia.

5.- Anzitutto, va sciolto il nodo della sussistenza o meno della giurisdizione di questo giudice amministrativo a conoscere della controversia.

Va premesso che durante la pendenza del presente giudizio di appello è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 15 aprile 2014 . Con tale sentenza, la Corte Costituzionale ha, tra l'altro: dichiarato l'illegittimità costituzionale degli arti. 133, comma 1, lettera 1), 134, comma 1, lettera e), e 135 , comma 1, lettera e), del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell'articolo 44 della L. 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con cognizione estesa al merito, e alla competenza funzionale del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sede di Roma le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Banca d'Italia; dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, numero 19), dell'Allegato 4 al medesimo D.Lgs. n. 104 del 2010, nella parte in cui abroga gli arti. 187-septies, commi da 4 a 8, e 195, commi da 4 a 8, del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della L. 6 febbraio 1996, n. 52).

Per effetto di tale sentenza è venuta meno, per le controversie della specie per cui è causa, la giurisdizione del giudice amministrativo, con conseguente reviviscenza della giurisdizione del giudice ordinario e della competenza funzionale della Corte d'appello del luogo in cui ha sede l'intermediario cui appartiene l'autore della violazione.

Alla luce di tale sopravvenuta decisione, entrambe le parti hanno concluso in via preliminare per la declaratoria di difetto di giurisdizione di questo giudice amministrativo, posto che oggetto del presente giudizio è la legittimità del provvedimento col quale la Banca d'Italia ha irrogato agli odierni appellanti una sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 195 del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria.

La difesa degli appellanti, in via subordinata ( e quindi per il caso di mancata declaratoria del difetto di giurisdizione) ha sollevato, in memoria conclusionale, questione di legittimità costituzionale dell'art. 9 del c.p.a., nella parte in cui lo stesso non prevede la rilevabilità d'ufficio anche in appello della questione di giurisdizione quante volte, come nel caso di specie, sia sopravvenuta una decisione della Corte costituzionale che abbia acclarato la illegittimità costituzionale della legge attributiva della giurisdizione al giudice amministrativo.

Osserva il Collegio come la questione di giurisdizione sia nel presente giudizio definitivamente preclusa in quanto coperta da giudicato implicito, formatosi a seguito della sentenza del giudice di primo grado che, nel decidere il merito della causa, ha con ciò ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia.

Tale sentenza, in quanto non impugnata, né in via principale, né in via incidentale sotto il profilo della giurisdizione, è divenuta per questa parte intangibile, non essendo consentito, in grado d'appello, che la questione possa essere sollevata d'ufficio o essere esaminata in assenza di una specifica impugnazione (art. 9 c. p. a.).

La soluzione non muta alla luce ella intervenuta pronuncia della Corte costituzionale n. 94 del 2014.

Ed invero, una volta che il giudice di primo grado ha ritenuto la propria giurisdizione ed ha pronunciato nel merito, respingendo il ricorso, l'omessa riproposizione avanti al giudice d'appello della questione di giurisdizione determina che su di essa si formi il giudicato, con l'ulteriore conseguenza che la pronuncia di incostituzionalità non può riverberare alcun effetto nel giudizio in cui si sia formato il giudicato implicito sulla giurisdizione ( per l'affermazione di tale principio cfr., tra le tante, Cass. sez. un. n. 17839 del 2012); in altri termini, poiché per effetto della mancata impugnazione sulla giurisdizione della sentenza che ha deciso il merito della controversia, si è formato il giudicato implicito sulla sussistenza della giurisdizione, la pronuncia di incostituzionalità della norma sul cui presupposto il giudice ha deciso nel merito non ha effetto su quel processo, perché il rilievo del difetto di giurisdizione è ormai in quella sede definitivamente precluso.

Inoltre, va ricordato che, ai sensi dell'art. 5 c.p.c., la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo. Il principio, sancito dall'art. 5 c.p.c., trova la sua ragion d'essere in esigenze di economia processuale e la sua concreta applicazione mira ad evitare che, in questo modo, la questione di giurisdizione venga ritrattata.

Anche l'art. 9 c.p.a. partecipa delle medesime finalità di economia processuale divisate dall'appena richiamato art. 5 c.p.c., volte ad escludere in radice comportamenti delle parti poco inclini al dovere di lealtà processuale. Finalità queste il cui perseguimento non è ostacolato dalla sopravvenuta sentenza di incostituzionalità della norma attributiva della giurisdizione, posto che l'aver reso intangibile - nei sensi anzidetti - la giurisdizione del giudice presso il quale la causa pende in appello, con scelta discrezionale del legislatore immune da vizi di ragionevolezza, non pone a quest'ultimo alcun problema di applicazione di una norma giudicata incostituzionale ( posto che, essendo la questione definitivamente preclusa, non si pone un problema di applicazione della disposizione normativa dichiarata non conforme a Costituzione).

Dai rilievi che precedono consegue la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del richiamato art. 9 c.p.a. posto che il tradizionale limite alla retroattività delle sentenze di illegittimità costituzionale trova qui puntuale applicazione con riguardo ai rapporti processuali coperti da giudicato, senza che possa rilevare la circostanza che la causa non sia ancora stata definita nel merito, attesa la già rilevata immodificabilità della decisione sulla questione di giurisdizione.

D'altronde a determinare l'effetto preclusivo della questione è stata una ben precisa scelta processuale delle parti, che non hanno introdotto motivi di appello ( in via principale o incidentale) alla sentenza di primo grado sotto il profilo della giurisdizione.

Per altro verso, è appena il caso di soggiungere che la giurisdizione amministrativa non offre garanzie processuali inferiori a quelle proprie della giurisdizione ordinaria ( cfr. Corte cost. n.204 del 2004), di guisa che la scelta delle parti (irrevocabile, per quanto anzidetto) di adire, in primo grado ed in appello, il giudice amministrativo non si risolve in un vulnus per la pienezza del diritto di difesa o per altre loro prerogative processuali di rango costituzionale.

6.- Ancora in via preliminare, va affrontato il tema della violazione o meno, ad opera di Banca d'Italia, del termine per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento sanzionatorio.

Come si è ricordato in fatto, la questione preliminare ed assorbente riproposta in questo grado dagli appellanti attiene alla violazione, da parte della Banca d'Italia, del termine finale di conclusione del procedimento sanzionatorio, con conseguente decadenza dell'Istituto dal potere di sanzionare le condotte ascritte agli odierni appellanti.

6.1 Osserva il Collegio che la censura non appare meritevole di favorevole esame.

Nella impugnata sentenza, il Tar ha escluso che la ridetta violazione procedimentale ricorresse in concreto in base ad una duplice considerazione :a) per la natura non perentoria del termine fissato in duecentoquaranta giorni all'autorità decidente dal Regolamento della Banca d'Italia 25 giugno 2008; b) per la mancata violazione in concreto del predetto termine, dovendosi computare quale dies a quo quello dell'ultima notifica delle contestazioni compiuta in confronto della società Orconsult ( e non invece tener conto semplicemente, come sostenuto dagli originari ricorrenti, soltanto delle notifiche eseguite in confronto dei singoli componenti il collegio sindacale della società).

Il Collegio condivide la suindicata motivazione come riportata sub b), di per sé sufficiente a ritenere superata, nella specie, la questione del preteso carattere invalidante della violazione del termine finale per provvedere: nessuna violazione procedimentale è infatti occorsa, sotto il dedotto profilo, nel caso per cui è giudizio.

Ed invero, il punto 129 dell'allegato al Regolamento prevede che il procedimento sanzionatorio relativo alle violazioni delle disposizioni del D.Lgs. n. 58 del 1998 e disciplinato dall'art. 195 del medesimo decreto legislativo deve concludersi nel termine di duecentoquaranta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle controdeduzioni da parte del soggetto che ha ricevuto per ultimo la notifica della contestazione.

Nel caso di specie, chi ha ricevuto per ultimo regolare notifica della contestazione è la O.S. in l.c.a., cioè il soggetto del quale gli autori delle violazioni erano esponenti, quindi responsabile in solido con essi, ai sensi dell'art. 195, comma 9, d.lgs. cit., del pagamento delle sanzioni e delle spese di pubblicità delle stesse.

In particolare la O.S. ha ricevuto la notifica della contestazione in data 7 giugno 2010, come risulta dalla relata di notifica a firma del commissario liquidatore.

Ora, poiché il termine di presentazione delle controdeduzioni, che sarebbe scaduto il 7 luglio 2010 è stato prorogato di trenta giorni su richiesta degli esponenti della SIM, ne consegue che l'autorità decidente aveva termine fino al 4 aprile 2010 per l'adozione del provvedimento: discende pertanto la piena tempestività del provvedimento irrogativo della sanzione, adottato il 1 aprile 2010.

Non convince la tesi degli appellanti secondo cui non dovrebbe tenersi conto, nel computo del suddetto termine per provvedere, della posizione della società Orconsul, in quanto non inquadrabile tra i "soggetti responsabili". La società è responsabile civile del pagamento della sanzione ( salvo l'obbligo di rivalsa nei confronti dei soggetti responsabili), è facultata alla proposizione delle controdeduzioni in sede procedimentale nonché alla proposizione del ricorso giurisdizionale contro il provvedimento conclusivo. In definitiva, è un soggetto che, a pieno titolo, partecipa al procedimento sanzionatorio ed è destinatario dei suoi effetti più significativi; per tal ragione la legge lo contempla espressamente tra coloro cui deve essere eseguita la notifica della contestazione degli addebiti, di tal che non v'è ragione di non tener conto della sua posizione procedimentale ai fini del computo del termine finale per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento.

6.2 Solo per completezza, attesa la esaustività di quanto rilevato al fine di ritenere non tardivo il provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa per cui è giudizio, il Collegio osserva che non appaiono condivisibili i rilievi del giudice di primo grado inerenti il carattere non perentorio del termine per la conclusione del procedimento.

Il Collegio è consapevole che gli orientamenti giurisprudenziali in tema non sono univoci.

Secondo un primo (ma minoritario) orientamento, il provvedimento irrogativo di una sanzione amministrativa, purchè intervenuto nel termine prescrizionale di cinque anni previsto dall'art. 28 della L. n. 689 del 1981, non è ex se illegittimo ove adottato in violazione del termine procedimentale per lo stesso previsto, salvo che sia diversamente previsto (Cass. sez. lav., 17 giugno 2003 n. 9680 ).

La posizione della giurisprudenza amministrativa ( Cons.Stato, VI, 20 maggio 2011, n. 3015; Cons. Stato, VI, 6 agosto 2013 n. 4113; id., 29 gennaio 2013 n. 542; T.a.r. Lazio, III, 3 dicembre 2015 n. 13668; id. 13 luglio 2015 n. 9346; 7 dicembre 2012 n. 10249) è tuttavia quasi univocamente orientata nel senso che, in materia di sanzioni amministrative, il termine fissato per l'adozione del provvedimento finale abbia natura perentoria, a prescindere da una espressa qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che lo preveda.

La giurisprudenza del giudice ordinario formatasi in tema di sanzioni irrogate ai sensi della L. n. 689 del 1981 si è orientata nel senso di ritenere perentorio il termine fissato dall'art. 18 all'autorità competente per l'adozione della ordinanza-ingiunzione, dopo che le sezioni unite della Corte di Cassazione (27 aprile 2006, n. 9591) hanno rilevato il carattere perentorio o comunque la natura decadenziale del termine fissato all'autorità amministrativa per l'adozione del provvedimento sanzionatorio conclusivo.

Il Collegio non ha motivo di discostarsi da tale ultimo condivisibile orientamento, tenuto conto della particolarità del procedimento sanzionatorio rispetto al generale paradigma del procedimento amministrativo di cui alla L. n. 241 del 1990 ( in cui è pacifico, per contro, che lo spirare del termine per provvedere non determina conseguenze invalidanti sul provvedimento tardivamente adottato).

6.3 Peraltro, questa Sezione ha avuto modo di recente, sia pur in diversa materia,di fissare alcuni principi generali, riguardo alla natura e agli effetti delle sanzioni amministrative, che appare utile qui richiamare per le ricadute che le stesse hanno anche sul tema qui controverso.

Si è osservato al proposito ( cfr. Cons.Stato, VI, n. 4487 del 2015) che le sanzioni si distinguono in sanzioni in senso lato e sanzioni in senso stretto: le prime hanno una finalità ripristinatoria, in forma specifica o per equivalente, dell'interesse pubblico leso dal comportamento antigiuridico; le seconde hanno una finalità afflittiva, essendo indirizzate a punire il responsabile dell'illecito allo scopo di assicurare obiettivi di prevenzione generale e speciale.

Le principali tipologie di sanzioni in senso stretto sono pecuniarie, quando consistono nel pagamento di una somma di denaro, ovvero interdittive, quando impediscono l'esercizio di diritti o facoltà da parte del soggetto inadempiente.

La disciplina generale delle sanzioni pecuniarie, modellata alla luce dei principi di matrice penalistica, è contenuta nella L. 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).

Se la sanzione ha natura afflittiva, la stessa deve essere sostanzialmente equiparata, ai fini della disciplina applicabile, ad una vera e propria sanzione penale.

La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione.

In particolare, sono stati individuati tre criteri, costituiti: i) dalla qualificazione giuridica dell'illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta la valenza "intrinsecamente penale" della misura; ii) dalla natura dell'illecito, desunta dall'ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; iii) dal grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella causa Zolotoukhin c. Russia; si v. anche Corte di giustizia UE, grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10; si veda, da ultimo, su questi tre criteri, Cons. Stato, sez. VI, sentenza 26 marzo 2015, n. 1596, spec. par. 14).

6.4 Ciò premesso, non par dubbio che nella specie la sanzione applicata dalla Banca d'Italia in confronto degli odierni appellanti abbia natura afflittiva, di tal che il Collegio ritiene che anche l'argomento fondato sulla natura del provvedimento sanzionatorio suggerisca la soluzione della necessaria perentorietà del termine per provvedere, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l'effettività del diritto di difesa dell'incolpato, avente come è noto protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.).

Non par dubbio, infatti, che consentire l'adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, in base all'art. 28 della L. n. 689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per l'adozione dell'atto, equivarrebbe ad esporre l'incolpato ad un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa.

6.5 Va d'altra parte tenuta ben distinta la disciplina generale del procedimento amministrativo (nell'ambito della quale alla violazione del termine procedimentale ordinariamente fissato all'Amministrazione non consegue l'invalidità dell'atto tardivamente adottato) rispetto alla disciplina, per questa parte a carattere speciale, del procedimento irrogativo di una sanzione amministrativa pecuniaria, il cui paradigma normativo è ancora individuabile nella L. n. 689 del 1981.

Non impedisce di pervenire a questa conclusione il carattere "universale" della legge generale sul procedimento amministrativo.

Per il principio di specialità, che prevale sul principio ordinario di successione cronologica delle norme, le disposizioni posteriori non comportano l'abrogazione delle precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare.

E appunto in questo rapporto si pongono la L. 7 agosto 1990, n. 241, e la L. 24 novembre 1981, n. 689, riguardanti l'una i procedimenti amministrativi in genere, l'altra in ispecie quelli finalizzati all'irrogazione delle sanzioni amministrative, caratterizzati da questa loro funzione del tutto peculiare, che richiede e giustifica (per quanto già detto) una distinta disciplina in relazione al carattere perentorio del termine fissato all'Autorità per provvedere alla irrogazione della sanzione. La L. n. 689 del 1981 (salvo che la legge disponga diversamente, con specifiche norme in tema di illeciti amministrativi puniti con sanzioni pecuniarie) funge da paradigma normativo generale per tutti i tipi di procedimenti sanzionatori, di guisa che quanto osservato a proposito di tale legge deve ritenersi applicabile anche al procedimento sanzionatorio avviato nel caso in esame dalla Banca d'Italia.

6.6 D'altra parte, le stesse richiamate disposizioni regolamentari sui procedimenti sanzionatori di competenza di Banca d'Italia si prendono cura di disciplinare espressamente ( art. 8) gli istituti della sospensione e della interruzione dei termini procedimentali, a riprova del carattere perentorio da riconnettere al termine per l'adozione del provvedimento conclusivo; non sarebbe infatti pienamente coerente con i predetti istituti prefigurare il termine finale come termine soltanto ordinatorio, mentre invece il suo rispetto si pone - come sopra rilevato - in termini di stretta connessione con una adeguata ed effettiva tutela del diritto di difesa del destinatario del provvedimento, espressione della pretesa punitiva della amministrazione.

6.7 A conclusioni non diverse riguardo alla natura perentoria del termine di conclusione del procedimento conduce l'esame della posizione assunta dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 20929 del 30 settembre 2009 e da ultimo da Cass. n. 1065 del 2014 e n. 25142 del 2015.

Nel caso deciso dalle sezioni unite si trattava dell'osservanza del termine endoprocedimentale di centottanta giorni previsto dal regolamento Consob n. 12697 del 2 agosto 2006 per la formulazione della proposta sanzionatoria da parte della Consob al Ministero dell'economia (secondo la disciplina all'epoca vigente).

E' evidente quindi che la questione era ben diversa da quella qui oggetto di causa, ove si discute del termine di adozione del provvedimento conclusivo, dalla cui violazione possono derivare immediate ripercussioni sulla effettività del diritto di difesa.

In relazione alle altre richiamate decisioni, non appare al Collegio condivisibile quanto osservato dalla Corte di Cassazione a proposito della irrilevanza, ai sensi dell'art. 21 octies della legge generale sul procedimento amministrativo, dei vizi formali nei provvedimenti a contenuto vincolato o comunque immodificabile.

In disparte il rilievo, già sviluppato,riguardo alla dubbia applicabilità, in via automatica, degli istituti riconducibili alla disciplina generale del procedimento amministrativo, ad un sistema procedimentale speciale ed in sé conchiuso riguardante l'applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie, risulta non condivisibile l'aggregazione del provvedimento sanzionatorio al genus dell'atto a contenuto vincolato.

Tali atti sono dotati di un tasso di discrezionalità coessenziale alla loro natura, sia in ordine all'accertamento dei fatti ed alla loro qualificazione giuridica (per i quali sussiste una accentuata discrezionalità tecnica), sia in ordine alla quantificazione della sanzione.

La sussistenza di tali poteri discrezionali rende per ciò solo inapplicabile il richiamato art. 21 octies della legge generale sul procedimento amministrativo.

6.8 In definitiva, il termine per la conclusione del procedimento irrogativo di una sanzione amministrativa pecuniaria ha carattere perentorio.

Tuttavia , nel caso in esame, detto termine non risulta violato, dovendo procedersi - per quanto già detto -al computo del predetto termine partendo dalla notifica eseguita ( per ultima) in confronto della O.S..

7.- Ancora in via preliminare, va osservato che correttamente il giudice di primo grado ha rilevato l'inammissibilità della censura inerente la violazione del termine per la contestazione degli addebiti, in quanto mai ritualmente proposta nel corso del giudizio di primo grado.

Il Collegio qui deve ribadire la correttezza di tale decisum, non potendo valere, in senso contrario, ad integrare uno specifico motivo di doglianza la deduzione - che si legge nel ricorso introduttivo del giudizio - di generiche violazioni nella scansione temporale delle fasi del procedimento da parte della amministrazione procedente senza alcuno specifico riferimento alla fase della contestazione degli addebiti.

8.- Può ora passarsi all'esame delle censure di merito, per il cui scrutinio può procedersi nel rispetto dell'ordine di deduzione dei distinti motivi articolati dagli appellanti ( con esclusione delle questioni già dianzi esaminate).

9.- Con un primo articolato motivo, in parte riassuntivo delle singole censure successivamente sviluppate in appello, gli appellanti assumono che la sentenza gravata non si sarebbe fatto carico di esaminare compiutamente la questione nodale del giudizio, afferente alla individuazione del comportamento concretamente esigibile da parte dei sindaci, utile a mandare costoro esenti da responsabilità.

In altri termini, gli appellanti assumono che, nonostante il provvedimento sanzionatorio abbia preso atto dei numerosi interventi sollecitatori e propulsivi dell'organo sindacale, abbia poi concluso per la responsabilità dei suoi componenti sulla base del solo rilievo della intervenuta liquidazione coatta della società Orconsult, con un salto logico riguardo agli effettivi profili di responsabilità, anche con riguardo all'elemento psicologico, in capo ai singoli componenti dell'organo di sorveglianza. Ed anche il Tar, con la sentenza qui impugnata, si sarebbe appiattito su tali posizioni, individuando nell'attività posta in essere dal collegio sindacale un controllo di tipo meramente formale, incapace di evitare il dissesto finanziario della società.

Osserva il Collegio come la censura non meriti condivisione.

Nella sentenza impugnata, contrariamente a quanto affermato dagli appellanti, sono stati adeguatamente vagliati sia i singoli profili delle violazione contestate, sia la specifica responsabilità personale degli incolpati . La circostanza che il giudice di primo grado abbia ritenuto legittimo l'operato di Banca d'Italia non deriva da supina adesione all'organo di vigilanza, quanto piuttosto da un'autonoma valutazione della congruità delle conclusioni raggiunte, coerenti con le evidenze istruttorie acquisite nel corso del procedimento.

Rileva il Collegio che la sentenza impugnata ha invero dato atto e riconosciuto gli adempimenti posti in essere dai ricorrenti ed allegati a loro discolpa, ma proprio dalla valutazione delle iniziative assunte dai sindaci ha ritenuto - conformemente a quanto aveva già concluso l'Organo di Vigilanza nel provvedimento sanzionatorio - che si è trattato solo di iniziative formali e non sostanziali, e cioè dei comuni adempimenti che vengono posti in essere dal collegio sindacale nella ordinaria vita di una società vigilata, senza alcuna concreta iniziativa fuori dal binario tracciato, nessun approfondimento, nessuna ispezione diretta, nessuna specifica richiesta di informazione su punti critici dettagliatamente indicati dall'Organo di Vigilanza; di tal che il rispetto degli obblighi di controllo gravanti sul collegio sindacale ai sensi dell'art. 2403 del cod.civ. è stato correttamente ritenuto solo formale e non sostanziale.

D'altra parte, il principio giurisprudenziale invocato dai ricorrenti ed espresso nella sentenza della Corte di cassazione n. 5239 del 2008 risulta correttamente applicato nel caso di specie per valutare la fondatezza degli addebiti, ossia l'aver verificato l'inosservanza da parte dei sindaci degli obblighi di controllo e di ispezione previsti dall'art. 2403, comma 3, cod.civ..

In tale quadro, la intervenuta sottoposizione della società a liquidazione coatta amministrativa, lungi dall' assurgere a prova ( postuma ed inadeguata, come dedotto dagli appellanti) della colpevolezza dei componenti l'organo sindacale, viene ad assumere il valore di rilevante indice sintomatico dell'inefficacia delle iniziative assunte dai sindaci per risollevare la società dalla cronica crisi di liquidità e dalla inadeguata capitalizzazione.

La formale adozione di un manuale delle procedure e la verifica dell'implementazione delle nuove procedure di "back office" di per sé non appare giustificazione idonea, perché ancorata su elementi di mera forma, in assenza di specifica indicazione di quali erano stati gli strumenti concreti direttamente derivanti da tali iniziative che avrebbero inciso in modo sostanziale al fine di invertire la tendenza più volte riscontrata dall'organo di vigilanza (anche a partire dell'anno 2008 quando i sindaci qui appellanti erano già in carica ). Né la circostanza che i sindaci abbiano collaborato con gli ispettori nel periodo in cui tale attività era in corso può costituire un'esimente, sia perché tale collaborazione è comunque doverosa, sia perché le contestazioni hanno riguardato il complesso della gestione nonché le omissioni imputabili all'organo sindacale, e non certo il comportamento tenuto dagli esponenti durante l'ispezione.

Inoltre, il Collegio osserva che gli appellanti non hanno fornito alcun elemento per confutare le conclusioni della Banca d'Italia circa il carattere formale e poco approfondito del controllo sulla gestione societaria loro ascritto. Il che sarebbe stato semplice, essendo a tal fine sufficiente che i sindaci avessero indicato le concrete iniziative assunte che si sarebbero rivelate efficaci se solo gli amministratori le avessero eseguite .In realtà, l'azione del collegio sindacale è stata correttamente valutata per quel che in concreto è stata, contraddistinta dalla mera presa d'atto di resoconti e senza l'individuazione delle molteplici anomalie operative, confermate da mancato rinvenimento di documentazione a supporto, in molteplici casi, o da documentazione comunque insufficiente.

Le gravi e diffuse carenze accertate avevano condotto all'espulsione dell'azienda dal mercato e ciò era direttamente riconducibile all'insoddisfacente svolgimento da parte dei componenti dell'organo di controllo delle proprie funzioni ed il periodo di permanenza in carica ( dalla fine del 2007 all'aprile del 2010) è stato correttamente ritenuto congruo a garantire una adeguata conoscibilità dei principali fatti societari.

La sentenza di primo grado ha attentamente esaminato le esimenti indicate dai sindaci per argomentare di aver esplicato tutta la diligenza possibile nello svolgimento del loro incarico, dall'altro è giunta alla conclusione che le iniziative illustrate fossero più formali che sostanziali, inidonee quindi a fondare un giudizio di non responsabilità a favore degli incolpati. I ricorrenti sottolineano i contenuti specifici degli obblighi ex art. 2403 c.c., e cioè accertamenti, ispezioni, richieste di interventi specifici; ma non risulta che detti accertamenti siano stati da loro in concreto effettuati. Al di là delle mere raccomandazioni agli amministratori contenute nei verbali prodotti, nulla di più sostanziale e concreto è stato compiuto dai sindaci anche solo nell'esercizio dei poteri indicati nell'art. 2403 cod.civ..

Del resto, la mera allegazione di iniziative formali non vale ad escludere l'elemento della colpa che, ai sensi dell' art. 3 della L. n. 689 del 1981, ha carattere presuntivo.

Gli appellanti pretenderebbero una inversione dell'onere probatorio sull'elemento psicologico, laddove invece la giurisprudenza più che consolidata è attestata nel senso che non spetta all'Amministrazione procedente provare l'elemento soggettivo dell'illecito bensì all'incolpato dimostrare l'assenza di colpa ( cfr. di recente, ex multis, Cass.2 aprile 2015 n. 6778); in altri termini l'Amministrazione deve provare solo la suitas della condotta, e cioè la mera riconducibilità degli illeciti contestati alla condotta degli incolpati, gravando invece su questi ultimi dimostrare concretamente gli elementi idonei a mandarli esenti da responsabilità.

In definitiva, correttamente la sentenza impugnata ha rilevato l'assenza di riscontri oggettivi rispetto all'effettività delle iniziative addotte a discolpa dai sindaci.

10. Con altro motivo, gli appellanti tornano a prospettare in questo grado la questione della violazione dell'art. 24, comma 1, della legge n. 262del 2005 - che impone di tener distinte, nell'ambito dei procedimenti sanzionatori, le funzioni istruttorie da quelle decisorie - e del provvedimento della Banca d'Italia n. 473798 del 27 aprile 2006, recante le "Modalità organizzative per l'attuazione del principio della distinzione tra funzioni istruttorie e finzioni decisorie nell'ambito della procedura sanzionatoria" .

In particolare, gli appellanti assumono che tra la proposta sanzionatoria del 31 marzo 2011 e il provvedimento sanzionatorio del direttorio del 1 aprile 2011 sarebbe intercorso un intervallo temporale troppo breve per ritenere che quest'ultimo abbia potuto svolgere un esame effettivo della proposta stessa e decidere, se del caso, di svolgere un supplemento di istruttoria.

Il Collegio rileva che anche tale motivo è infondato.

Innanzitutto, le norme invocate dagli odierni appellanti si limitano a tracciare la distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie e a indicare gli organi competenti per ciascuna di esse; le stesse non possono quindi essere d'aiuto ai ricorrenti, dato che nel caso in esame la Banca d'Italia ha applicato correttamente quelle disposizioni essendo stato adottato il provvedimento conclusivo da organo diverso da quello istruttorio ed in una a fase ben distinta .

Né si può dire che il breve lasso temporale intercorso tra proposta e provvedimento conclusivo sia sintomatico dell'elusione sostanziale delle disposizioni dianzi richiamate, e ciò in quanto :

quelle disposizioni mirano ad operare una distinzione formale, utile a garantire la massima imparzialità tra i due organi, ed evitare commistioni tra organo istruttorio ed organo decidente, non invece ad appesantire il procedimento ripetendo nel corso della seconda fase le attività compiute nella prima;

in ogni caso, è dirimente l'argomento prospettato dall'Istituto appellato secondo cui all'esito della pregressa ispezione svolta presso la SIM e conclusa 1'11 dicembre 2009 erano già emerse violazioni della disciplina sui servizi d'investimento, tra cui la riduzione del patrimonio di vigilanza al di sotto del minimo richiesto,che avevano indotto la Banca d'Italia a proporre al Ministero dell'economia e delle finanze, il 10 aprile 2010, la liquidazione coatta amministrativa della SIM .Nella proposta di liquidazione coatta s'illustrano, tra l'altro, le singole violazioni e se ne attesta la stessa riconducibilità agli organi di vertice della SIM. Tale proposta è un atto del Direttorio della Banca d'Italia, organo competente per legge (art. 19, comma 6, L. n. 262 del 2005).Per tale ragione, l'organo decidente, al momento della adozione del provvedimento sanzionatorio era già al corrente di quelle medesime condotte che hanno poi determinato la applicazione della sanzione, di tal che non è irragionevole che abbia valutato in poco tempo l'ascrivibilità delle stesse (anche) a carico degli odierni appellanti, quali componenti il collegio sindacale, dopo aver esaminato le controdeduzioni dagli stessi prodotte in sede procedimentale.

11.- Con ulteriore motivo, gli appellanti lamentano che il potere sanzionatorio della Banca d'Italia sarebbe stato illegittimamente rivolto in loro confronto, componenti del collegio sindacale solo nel periodo ricompreso tra il dicembre 2007 e l'aprile 2010, laddove le irregolarità contestate , consistite essenzialmente nel mancato approntamento di un idoneo assetto organizzativo della società e nella inosservanza dei requisiti minimi prudenziali, avrebbero una genesi temporale ben più risalente. Sul punto, evidenziano che la impugnata sentenza avrebbe prestato acritica adesione alle posizioni dell'istituto di vigilanza e che non avrebbe colto l'esatto profilo della censura di primo grado, laddove si criticava il provvedimento sanzionatorio ove lo stesso aveva contestato ai componenti del collegio sindacale che detto organo si era limitato alla presa d'atto dei resoconti del responsabile della conformità e del revisore contabile.

Ritiene il Collegio che anche tale censura non sia suscettibile di favorevole scrutinio.

Come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, le contestazioni svolte in confronto degli odierni appellanti hanno riguardato proprio il periodo in cui costoro hanno esercitato le loro funzioni di sorveglianza presso Orconsult, posto che a tale periodo si riferivano sia le rilevate carenze nei controlli e nella documentazione sia la riduzione del patrimonio di vigilanza al 30 settembre 2009.

Mentre tale ultima irregolarità si riferisce ad un'epoca in cui i sindaci erano già da due anni nell'esercizio delle loro funzioni, le altre manchevolezze, indicate nei rilievi ispettivi ad essi contestati, si riferiscono anch'esse ad anni (2008 e 2009) in cui gli odierni appellanti erano nel pieno esercizio delle loro funzioni; si tratta peraltro di un lasso temporale non poco significativo, in relazione al quale i sindaci ben avrebbero potuto indicare le azioni in concreto intraprese per ( quantomeno) limitare le irregolarità riscontrate.

Quanto poi alle ipotizzate negligenze ascrivibili ad organi con compiti di controllo interno ( anche ad ammetterne l'esistenza) le stesse non esimono in ogni caso i sindaci da responsabilità posto che ai sensi dell'art.10 del regolamento congiunto della Banca d'Italia e della CONSOB del 29 ottobre 2007, ai sindaci sono attribuiti compiti e poteri necessari al pieno ed efficace assolvimento dell'obbligo di rilevare le irregolarità nella gestione e le violazioni delle norme disciplinanti la prestazione dei servizi d'investimento e, nello svolgimento di tali compiti, essi possono poi avvalersi "di tutte le unità operative aventi finzioni di controllo all'interno dell'azienda"

E' chiaro dunque che il potere di controllo sul buon andamento gestorio di una SIM competa innanzitutto ai sindaci, anche in funzione dell'obbligo su di essi gravante di informare senza indugio le Autorità di vigilanza di tutti i fatti che possano costituire un'irregolarità nella gestione o

una violazione della disciplina applicabile all'intermediario (art. 8, D.Lgs. n. 58 del 1998).

Pertanto, correttamente la impugnata sentenza ha rilevato che le eventuali carenze di tali organismi e strutture interne di controllo non escludono o riducono la responsabilità dei sindaci, ma anzi costituiscono caso mai una circostanza aggravante della responsabilità dell'organo sindacale.

12. Sotto altro profilo, gli appellanti tornano a riproporre in questo grado la questione della asserita carenza motivazionale del provvedimento irrogativo delle sanzioni pecuniarie, evidenziando che lo stesso non avrebbe potuto contenere una motivazione articolata per relationem rispetto alla proposta, stante la distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie e che la stessa proposta non darebbe, comunque, conto, in asserito spregio all'art. 3 della L. n. 689 del 1981, delle posizioni, che si assumono tra loro differenziate, dei sindaci, da un lato, e degli amministratori, dall'altro.

Osserva il Collegio come la censura sia infondata sotto entrambi i profili.

La motivazione ob relationem è anzitutto una delle possibili declinazioni dell'obbligo sancito dall'art. 3, comma 3, 1. n. 241/1990, di tal che non vi è motivo di denunciare sul piano della legittimità un provvedimento che abbia fatto ricorso a tale tecnica motivazionale prevista dalla legge. La legge prevede, al contrario, che l'organo decidente non possa discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria, se non adducendo una specifica motivazione (art. 6, comma 1, lett e), 1. n. 241/1990).

La motivazione ad hoc è, dunque, espressamente richiesta quando l'organo decidente disattenda la proposta; dal che consegue la piena legittimità della scelta, coerente anche con il principio di economicità dell'azione amministrativa, che la motivazione sia formulata con la tecnica del richiamo espresso ad altro precedente atto del procedimento.

Quanto all'asserita mancata differenziazione delle posizioni dei componenti gli organi di controllo da un lato e amministrativo dall'altro va rilevato che, proprio nella prospettazione invocata dai ricorrenti, per poter tener conto di un'eventuale diversa rilevanza dell'elemento soggettivo, ai sensi dell' art. 3 della L. n. 689 del 1981, i sindaci avrebbero dovuto fornire specifici elementi a tal fine. Senonchè, le controdeduzioni sono state congiuntamente presentate in sede procedimentale dagli amministratori e dai sindaci, senza alcuna differenziazione delle rispettive posizioni se si eccettua il fatto che i ricorrenti si sono limitati a rilevare di aver avuto poco tempo a disposizione per approfondire la conoscenza dei fatti societari e di aver sempre fatto constare a verbale( ma di tanto non è stata data prova) i loro rilievi afferenti presunte criticità nella gestione societaria.

D'altra parte, ai fini sanzionatori, non emerge alcuna distinzione sul piano ontologico che possa riconnettersi alla diversa funzione di controllo riservata ai sindaci rispetto alla funzione di amministrazione attiva, posto che sussiste piena equivalenza tra condotte attive e passive come si desume, oltre che dall'art. 3, comma 1, della L. n. 689 del 1981, dall'art. 190, comma 3, del D.Lgs. n. 58 del 1998 ai sensi del quale agli esponenti degli organi di controllo delle S1M si applicano le medesime sanzioni previste per quelli degli organi di gestione, qualora essi abbiano omesso di vigilare sulla condotta di questi ultimi.

Non è ravvisabile alcuna illegittimità, pertanto, nel fatto che la proposta della Commissione non distingua la posizione dei sindaci da quella degli amministratori, in relazione alla misura della responsabilità per le violazioni per cui è causa.

Pertanto, anche sotto tale profilo la sentenza impugnata va esente dalle censure sollevate dagli appellanti.

13. Altro motivo di censura gli appellanti rivolgono avverso quella parte della impugnata sentenza con la quale è stato respinto il motivo di primo grado incentrato sulla contestata incapienza del patrimonio di vigilanza della Orconsult al 30 settembre 2009; data alla quale quel capitale . è risultato inferiore al capitale minimo regolamentare essendo "pari ad Euro 355 mila per effetto della deduzione di attività non liquide per Euro 120 mila (crediti nei confronti degli amministratori e dei sindaci per sanzioni irrogate dalla CONSOB nel 2007), che non sono mai siate oggetto di segnalazione ai fini dell'aggregato patrimoniale".

I ricorrenti assumono che la Banca d'Italia - a conoscenza in virtù dell'art. 5, comma 5, D.Lgs. n. 58 del 1998, delle sanzioni irrogate dalla CONSOB agli esponenti della SIM il 23.4.2007 - nel rilevare che il patrimonio di vigilanza al 31.12.2007 si era attestato ad Euro 415 mila con una lieve eccedenza rispetto al minimo di legge (Euro 385 mila) avrebbe ingenerato nei sindaci un affidamento sulla congruità del patrimonio, nonostante la presenza dei predetti crediti; sotto altro profilo, gli appellanti osservano che l'importo della sanzione non avrebbe dovuto essere detratto dal patrimonio disponibile, così come pure i crediti per rivalsa, in considerazione dell'impugnazione del provvedimento afflittivo irrogato dalla CONSOB nell'aprile 2007.E che in ogni caso, il credito di rivalsa della SIM nei confronti degli esponenti sarebbe sorto soltanto dopo il pagamento delle sanzioni da parte della SIM.

In definitiva , il provvedimento sanzionatorio sarebbe censurabile perché la relativa motivazione avrebbe omesso il compiuto esame di tali elementi.

Osserva il Collegio come nessuna delle censure sia meritevole di accoglimento.

Come correttamente rilevato dalla difesa dell'Istituto appellato, la lettera della Banca d'Italia del 7.4.2008, si limitava a rilevare la lieve eccedenza del patrimonio di vigilanza della SIM (Euro 415 mila) rispetto al limite minimo normativo (Euro 385 mila) e ad invitare l'intermediario ad adottare sollecite iniziative volte a ricondurre l'ammontare del patrimonio a livelli di maggior sicurezza. La lettera della Banca d'Italia considerava gli ultimi dati trimestrali disponibili forniti dalla SIM, quelli cioè al 31 dicembre 2007 e non conteneva alcun apprezzamento in ordine alla correttezza dell'imputazione da parte della Orconsult al patrimonio di vigilanza delle singole poste attive.

In altri termini, la valutazione espressa dalla Banca d'Italia nella nota suindicata era riferita all'aggregato patrimoniale della società, non potendo con essa esprimere apprezzamenti

riferiti alle singole voci, in assenza della documentazione contabile dell'azienda.

Peraltro, i dati trimestrali comunicati dalla Orconsult si riferivano solo all'aggregato "altre attività" ove i crediti, per un ammontare complessivo pari a Euro 59.000,00 al 31.12.2007, sono indicati senza specificazione degli elementi distintivi relativi a ciascuno di essi (titolo, debitore, scadenza ecc.).

Né la valutazione sull'adeguatezza dell'aggregato patrimoniale della società (espressa con la citata nota del 7.4.2008) avrebbe potuto essere influenzata dalla comunicazione del pregresso provvedimento sanzionatorio assunto da CONSOB nei confronti degli esponenti della Orconsult. .

L'obbligo di comunicazione dei provvedimenti sanzionatori adottati risponde al fine del tutto diverso: quello di garantire a ciascuna delle Autorità un'informazione quanto più completa possibile sulla situazione degli intermediari oggetto di vigilanza condivisa, consentendo così di tener conto delle irregolarità rilevate dall'altra Amministrazione per modulare adeguatamente la propria azione di vigilanza.

Le specifiche modalità attraverso le quali i soggetti vigilati decidono di far fronte ai provvedimenti sanzionatori e la circostanza che essi paghino o meno tempestivamente, maturando cosi un credito di rivalsa nei confronti dei sanzionati, non è oggetto di comunicazione fra le autorità di controllo.

Nella fattispecie, secondo quanto ammesso dagli stessi appellanti, la Orconsult ha autonomamente stabilito di includere l'importo della sanzione tra le passività, pur senza aver ancora disposto il pagamento in attesa dell'esito del giudizio; la SIM, ancora una volta nella sua piena discrezionalità, ha poi deciso di indicare i crediti di rivalsa quale posta attiva del patrimonio di vigilanza, in sostituzione della somma corrispondente alla sanzione inclusa tra le passività.

Come evidenziato nella proposta sanzionatoria, non può peraltro ascriversi a Banca d'Italia di aver ingenerato l'affidamento circa la legittimità di quelle imputazioni atteso che la Orconsult non ha nemmeno comunicato l'inclusione di tali crediti nel patrimonio, non consentendo quindi all'Autorità di vigilanza di valutare specificamente la correttezza di tale imputazione.

Come ha dedotto l'appellata Banca d'Italia, senza essere smentita in fatto dagli appellanti, solo a decorrere dal 1 settembre 2008, e con riferimento alla data contabile del 30 giugno2008, l'Istituto di Vigilanza è venuto a conoscenza del fatto che i crediti di rivalsa in questione erano dalla SIM computati nell'aggregato "altre attività".

Da tutto quanto sopra risulta, allora, che la decisione di considerare i crediti per rivalsa nel patrimonio di vigilanza è riconducibile a una precisa e autonoma scelta della SIM, che è stata correttamente sanzionata in quanto, essendo detti crediti di recupero incerto, non sono dotati della liquidità necessaria per essere computati nel patrimonio di vigilanza.

Contraddittoria e non condivisibile è altresì la censura secondo cui i crediti di rivalsa non potevano essere computati se non all'esito dell'effettivo pagamento delle sanzioni da parte della SIM. E'la stessa SIM, infatti, ad avere computato tali crediti di rivalsa nel patrimonio di vigilanza già prima di eseguire il pagamento.

In definitiva, emerge chiara da quanto detto la contestata violazione del capitolo 12 del titolo I del regolamento della Banca d'Italia in materia di vigilanza prudenziale per le SIM , nella parte in cui stabilisce (pag. 50) che "gli elementi positivi che concorrono alla quantificazione del patrimonio devono poter essere utilizzati senza restrizioni o indugi per la copertura dei rischi e delle perdite aziendali nel momento in cui tali rischi o perdite si manifestano".

Correttamente quindi la sentenza di primo grado ha ritenuto infondata la doglianza senza attribuire rilievo scriminante al parere reso dalla Iter Audit ( peraltro non citato nelle controdeduzioni degli incolpati) in ragione del fatto che tale parere è intervenuto dopo la commissione dell'illecito: di tal che, al momento della consumazione della violazione, i sindaci giammai avrebbero potuto fondare sullo stesso un affidamento legittimo.

In definitiva, i tentativi degli appellanti di utilizzare il citato parere dell'Audit esterno per inferire una pretesa mancanza dell'elemento soggettivo dell'illecito si rivelano privi di giuridico fondamento.

Deducono inoltre gli appellanti un vizio di eccesso di potere sotto il profilo che la Banca d'Italia, nel formulare la proposta, per giustificare di non aver potuto attribuire valore esimente a una prospettata iniziativa di aumento di capitale, aveva, fra l'altro, evidenziato le "anomale modalità di sottoscrizione adottate dal socio Fin. Pet. ", mentre tali anomalie, assumono gli appellanti, non si sarebbero verificate "in costanza del loro mandato sindacale".

Anche tale ultima doglianza si rivela infondata atteso che è incontestato, in fatto, che la riferita operazione di aumento di capitale sia successiva alla chiusura dell'ispezione e non sia stata considerata rilevante ai fini dell'accertamento della violazione. La stessa è citata nella proposta quale elemento ulteriore a comprova dell'inefficacia delle iniziative ( già in passato infruttuosamente assunte) funzionali al superamento del contestato deficit patrimoniale.

14. Con altro motivo, gli appellanti tornano a censurare il carattere rilevante che, nel provvedimento sanzionatorio, sarebbe stato attribuito alla nota del 7.7.2010del Commissario liquidatore di Orconsult, lamentando la mancata conoscenza da parte loro di detta nota e la conseguente mancata articolazione, anche in sede procedimentale, di più puntuali difese.

Osserva il Collegio come il testo della proposta della Commissione non faccia riferimento al contenuto di tale nota se non richiamandolo come elemento meramente confermativo rispetto alla sostanza della contestazione sulle modalità di sottoscrizione del capitale da parte del socio Fin.Pet.

In ogni caso, appare pertinente il richiamo, contenuto al proposito nella sentenza di primo grado, alla irrilevanza processuale della deduzione, alla luce di quanto dispone l' art. 21 octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990, in assenza di indicazioni da parte dei ricorrenti di come la citata nota avrebbe influenzato in maniera determinante la decisione del Direttorio.

15. Da ultimo, gli appellanti tornano a prospettare in questo grado la questione della non corretta determinazione della misura della sanzione loro applicata che sarebbe, secondo l'assunto difensivo, eccessiva e sproporzionata, anche in rapporto a quella inflitta agli amministratori.

Osserva il Collegio che anche tale motivo di censura va disatteso.

Sotto un primo profilo, i ricorrenti lamentano che, nella determinazione della misura della sanzione, non si sarebbe tenuto conto dell'attività disimpegnata dall'organo sindacale per evidenziare le criticità nella gestione della SIM.

In realtà, si è già detto che il provvedimento sanzionatorio abbia correttamente evidenziato l'inadeguatezza delle iniziative dei sindaci, non correlate agli addebiti loro ascritti, in relazione ai quali la loro azione di vigilanza è stata correttamente ritenuta non funzionale ad assicurare la buona gestione della SIM.

Inoltre, i ricorrenti eccepiscono che non si sarebbe fatta alcuna distinzione tra la posizione dei sindaci e quella degli amministratori, tanto più che ai primi sarebbero state contestate carenze nei soli controlli e ai secondi carenze nell'organizzazione e nei controlli.

La censura non coglie la sostanza degli addebiti contestati, seppur a diverso titolo, ai sindaci e agli amministratori; addebiti che sono sostanzialmente gli stessi, per come contenuti nei rilievi ispettivi.

La diversa denominazione delle violazioni sottolinea soltanto il diverso titolo dell'incolpazione, che nel caso dei sindaci ha riguardo l'omesso controllo sull'assetto organizzativo e dei controlli interni della SIM. E ciò è attestato chiaramente dal rilievo ispettivo (n. 1)contestato soltanto ai sindaci , in aggiunta a quelli sopra indicati, dove si legge che "del tutto insoddisfacente è risultata l'azione del collegio sindacale, formale e poco approfondita, in quanto basata sulla presa d'atto dei resoconti del responsabile della conformità e del revisore contabile"; e che "le verifiche svolte, pertanto, non sono state in grado di individuare le molteplici anomalie operative di seguito esemplificate e le criticità dell'assetto organizzativo e del sistema dei controlli".

Come si è già visto, inoltre, la posizione di garanzia che i sindaci assumono alla luce del principio generale sancito dall'art. 40, comma 2, c.p. (ribadito dall'art. 3, comma 1 della 1. n. 689/1981 e soprattutto dall'art. 190, comma 3, in materia di sanzioni ai componenti gli organi di controllo delle SIM), giustifica la loro equiparazione agli amministratori ai fini della quantificazione della sanzione.

A ciò aggiungasi che le sanzioni comminate ai sindaci, pari a Euro 30.000 per le violazioni sub 1 e 2 della proposta e ad Euro 30.000 per quella sub n. 4 della stessa, risultano più vicine al minimo (Euro duemilacinquecento) che al massimo edittale (curo duecentocinquantamila) di cui all'art. 195, commi 1 e 3, D.Lgs. n. 58 del 1998.

Nessuna violazione dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza può pertanto essere fondatamente indirizzata all'attività di Banca d'Italia nella determinazione della sanzione agli odierni appellanti, la cui responsabilità per l'omesso controllo nella causazione del dissesto aziendale non è stata correttamente ritenuta inferiore a quella ascritta ai componenti dell'organo amministrativo.

Sotto altro profilo, i ricorrenti tornano a dolersi che non si sarebbe tenuto conto, sempre ai fini della determinazione della sanzione, delle modeste dimensioni della SIM, e che quindi le violazioni non avrebbero potuto produrre in concreto danni rilevanti né ai clienti né al mercato finanziario.

In realtà, nel provvedimento di Banca d'Italia 3 settembre 2003, sulle procedure di applicazione delle sanzioni amministrative agli intermediari non bancari, l'entità della sanzione, stabilita entro i limiti edittali ed avuto riguardo ai criteri previsti dalla legge, viene determinata sulla base della gravità della violazione che si desume, tra l'altro, dalle conseguenze della medesima sulla situazione tecnica aziendale - con riguardo anche alle dimensioni dell'intermediario - ovvero sulla rappresentazione della situazione comunicata alla Banca d'Italia.

Ne consegue che, nella commisurazione delle sanzioni, le dimensioni della SIM vengono in rilievo solo in via indiretta, per apprezzare, cioè, l'impatto sugli assetti tecnici dell'azienda delle violazioni commesse dai relativi esponenti, giammai per valutare l'entità dei danni che ne possono conseguire ai clienti o al mercato, come invece pretendono i ricorrenti.

Ora, nel caso di specie, la Orconsult, per effetto delle violazioni accertate, è stata addirittura posta in liquidazione coatta amministrativa, e di tale circostanza si è correttamente tenuto conto nel determinare l'importo delle sanzioni

Per quanto detto, anche tale motivo di ricorso va disatteso.

16. In definitiva, l'appello va respinto nel suo insieme e va confermata la impugnata sentenza.

17. Le spese di lite del presente grado di giudizio possono essere compensate tra le parti, tenuto conto della particolarità e della novità delle questioni trattate.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull'appello ( RG n. 225/13), come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese del presente grado di giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2016, con l'intervento dei magistrati:

Sergio Santoro, Presidente

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere, Estensore

Dante D'Alessio, Consigliere

Andrea Pannone, Consigliere

Marco Buricelli, Consigliere
Avv. Antonino Sugamele

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